Le prove tecniche di governo dell’Unione sono davanti agli occhi di tutti: siamo di fronte a una maggioranza rissosa e senza i numeri per controllare il Senato. Le premesse per l’eutanasia del centrosinistra ci sono tutte, ma solo a patto che la Casa delle libertà resti unita e faccia un’opposizione intelligente e corale. Votare scheda bianca per l’elezione del Presidente della Repubblica alla fine è stata una mossa saggia perché se i centristi avessero sostenuto Napolitano, oggi la Cdl non ci sarebbe più.
La scelta di Casini di privilegiare l’unità della coalizione è la premessa per una posizione unitaria del centrodestra anche sul referendum per la riforma costituzionale. Ieri il leader dell’Udc ha ribadito che, nonostante alcune perplessità, non si può stare dalla parte del centrosinistra. Si tratta di una scelta di campo chiara che allontana il pericolo di una tempesta con la Lega e consente di ragionare su una campagna referendaria ormai alle porte. Il centrodestra ha governato per cinque anni il Paese, ha raccolto il cinquanta per cento dei consensi e, di fatto, è il vero vincitore politico delle elezioni. Non è affatto inverosimile dunque affermare come fa Casini che «presto saremo di nuovo chiamati al governo» e proprio per questo non si può concedere all’avversario un minuto di tregua o, peggio, il vantaggio di un’opposizione divisa. Il referendum si può vincere o perdere, fa parte delle regole del gioco, ma quello che conta per la Casa delle libertà è respingere l’idea che il centrodestra non possa, a priori, cambiare la Costituzione e che addirittura la riforma - come affermato da Andrea Manzella, costituzionalista di riferimento della sinistra conservatrice - sia «un progetto eversivo».
Queste posizioni tradiscono il pregiudizio della superiorità morale della sinistra nei confronti della destra, l’idea - questa sì eversiva - che solo i cosiddetti progressisti abbiano la legittimità per cambiare le regole, magari alla fine della legislatura e con soli cinque voti di scarto, come è successo con la riforma del Titolo V della Costituzione.
La stessa elezione del Presidente della Repubblica è stata viziata da questa «visione del mondo» a una dimensione e l’ascesa di Giorgio Napolitano al Quirinale - sia detto con tutto rispetto per il neo Presidente - rappresenta un vulnus nel procedimento democratico. Il blocco sociale moderato e in particolare tutto il Nord che ha votato compatto per la Cdl, ha subito l’ostracismo del centrosinistra. E proprio la «questione settentrionale» rappresenta la pietra angolare della politica dell’Unione, lo scollamento con la locomotiva del Paese, la frattura con gli imprenditori, con il ceto produttivo che dal 1994 vota Silvio Berlusconi chiedendo più efficienza e meno Stato. Non a caso lo «scatto di Vicenza» ha rappresentato la svolta della campagna elettorale del Cavaliere.
Quell’imperativo, più efficienza e meno Stato, non è cambiato e il referendum va difeso proprio in virtù di quei desideri e di quelle aspirazioni. La Cdl ha davanti a sé uno spartiacque: lasciare che il centrosinistra conduca le danze con il ballerino Oscar Luigi Scalfaro già visto all’opera al Senato, oppure condurre una campagna referendaria convinta e convincente.
Pochi sanno che nella riforma c’è il superamento del bicameralismo perfetto, con il Senato che rinuncia ad alcuni suoi poteri per favorire un percorso più rapido delle leggi; pochi sanno che se passa il referendum finalmente avremo una politica energetica unica, senza veti e con una bolletta meno salata per le famiglie. La propaganda nasconde questi aspetti della riforma e la Cdl deve fare uno sforzo per spiegarli e non dare al centrosinistra nessuna scusa per affossare il referendum e cercare così di legittimare in ritardo una vittoria elettorale risicata e sgangherata. L’Unione conta di sopravvivere alle proprie contraddizioni sperando che la Casa delle libertà non resista alla prova dell’opposizione, che tra le sue mura si aprano delle crepe e qualcuno si vesta da crocerossina e soccorra un governo che i numeri li dà ma non li ha.
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