lunedì 2 ottobre 2006

Nessuno tocchi Mirza

PAKISTAN L'esecuzione di un uomo può attendere, è Ramadan.

Mirza Tahir Hussain, 36 anni, cittadino britannico, sarebbe dovuto morire ieri. Ad essere precisi avrebbe dovuto essere ucciso da tempo: il primo giugno, il primo agosto e anche il primo settembre. In ogni occasione la sua condanna morte è stata posticipata dell'intervento del magnanimo presidente Pervez Musharraf. L'intervento che ne ha evitato la morte ieri è ancora più trascendentale. Infatti la condanna sarebbe dovuta diventare esecutiva, per l'ennesima volta, il primo ottobre, ma è stata posticipata perchè il mese sacro del Ramadan non lo consentirebbe.

La storia di questo caso è abbastanza travagliata e ermetica da comprendere.
L'accusa è di aver ucciso un tassista nel 1988 e in origine, Hussain è stato riconosciuto colpevole di omicidio e condannato a morte da un tribunale ordinario.
Tuttavia, nei processi d’appello del 1992 e 1996, sono state annullate sia la condanna capitale che il giudizio di colpevolezza, per insufficienza di prove. Pochi giorni dopo il secondo appello, però, Hussain è stato accusato dello stesso crimine davanti ad un tribunale della Sharia, la Legge Divina.
Nel 1998 è arrivata la decisione del tribunale islamico, che lo ha riconosciuto colpevole di omicidio a scopo di rapina e condannato a morte.
La condanna capitale è stata poi confermata dalla sezione religiosa della Corte Suprema pakistana, che ha esaminato il caso nel 2003 e 2004.

La versione dei fatti fornita da Hussain è completamente diversa e lui si è sempre dichiarato innocente.

Giunto in Pakistan per incontrare la propria famiglia, la sera del 17 dicembre 1988 Hussain avrebbe preso un taxi. Il conducente, Jamshed Khan, avrebbe estratto una pistola per aggredirlo. Nella colluttazione sarebbe partito il colpo che ha ucciso Khan.
Il sistema giuridico pakistano ha 2 peralleli che a volte si sovrappongono; uno basato sulla Common Law inglese e un'altro basato sulla legge islamica. Accade spesso che la Sharia, la legge coranica, capovolga il verdetto deducibile dal sistema anglosassone e abbia valore primario.
Non è sicuramente questa la sede per stabilire la sua colpevolezza o meno. Ci chiediamo però a quanta pressione psicologica sia sottoposto quest'uomo, in bilico fra la vita e una morte prestabilita da altri. Quanto la mente può sostenere questa precarietà. Quanta inumanità c'è in tutto questo.

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